Il voto del redattore
- voto
- 3.5/5
- valutazione
- Per lo spettatore che vuole essere sfidato
Il voto dei lettori
- voto medio
- 1.7/5
- numero votanti
- Questo film è stato votato da 57 lettori
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02 11 2013
Old Boy
di Park Chan-wook
- Dati
- Titolo originale: Old Boy
- Soggetto: Tratto dall'omonimo manga
- Sceneggiatura: Hwang Jo-yun, Lim Chun-hyeong
- Genere: Azione - Psicologico
- Durata: 120'
- Nazionalità: Corea del sud
- Anno: 2005
- Produzione: ShowEast, Egg Films
- Distribuzione: Lucky Red
- Data di uscita: 00 00 0000
Recensione pubblicata il 17 05 2005
Questa recensione è stata letta 21518 volte
Scatole... coreane
di Eduard Le Fou
Secondo capitolo di una trilogia sul tema della vendetta, dopo Sympathy For Mr. Vengeance del 2002 e prima di Symphathy for Lady Vengeance ancora da realizzare, arriva sugli schermi italiani con un incomprensibile ritardo di un anno esatto dalla presentazione a Cannes 2004, Old Boy, il film che ha definitivamente proiettato il talento visionario di Park Chan-wook all'attenzione del pubblico mondiale.
Grazie anche alla raccomandazione dell'ormai onnipresente Quentin Tarantino, che del festival di Cannes era l'anno scorso presidente della giuria, e che, si racconta, si fosse preso una vera e propria "fissa cinefila" per questa pellicola tanto da farle assegnare il Gran Premio della Giuria.
Più che il tema centrale, la vendetta è lo strumento narrativo che conduce lo spettatore attraverso le visioni sempre sorprendenti e originali del regista, e dentro un'ossessione: la segregazione, l'isolamento coatto, e le lacerazioni violente che esse provocano dentro l'anima e sul corpo di chi la vive. Un'ossessione comune a molti registi coreani contemporanei, cresciuti tra la propaganda anti-comunista rivolta contro i fratelli della Corea del Nord e una dolorosa ricerca di liberta' all'interno della propria stessa nazione.
Old Boy trae il suo soggetto dal popolare e omonimo manga giapponese del 1997, i cui diritti sono stati acquistati dal produttore del film a una cifra-record per la Corea; un'operazione che si è rivelata poi del tutto azzeccata e remunerativa. Il film è stato infatti un grande successo commerciale (ha incassato al botteghino coreano più di Kill Bill 2) ed è già in lavorazione l'ormai immancabile remake statunitense. Eppure la storia non è delle più facili: Oh Dae-soo è un uomo qualunque, un po' cialtrone e dedito all'alcol, che inspiegabilmente viene rapito e tenuto imprigionato in una squallida stanza per quindici interminabili anni, senza alcun contatto umano e con l'unica compagnia di un televisore, tramite il quale scopre che la moglie è stata assassinata e la figlia affidata ad un'altra famiglia. Le immagini televisive scandiscono il passare del tempo: quindici anni persi della propria vita, anni di cui Oh Dae-soo riesce a sopportare il peso soltanto grazie alla volontà di scoprire chi abbia potuto punirlo in maniera tanto sadica, e soprattutto perchè.
Quindici anni di rabbia, che fanno crescere in lui un furioso desiderio di vendetta contro i suoi carcerieri. I danni psichici sono ormai molto gravi, ma un giorno, improvvisamente, si ritrova fuori dalla prigione. Finalmente libero. Almeno all'apparenza. Da qui in poi ha inizio un'implacabile ricerca della verità che però si rivela completamente manovrata dal suo carceriere. Oh Dae-soo incontra Lee Woon-jin (il sadico carceriere), soltanto dopo averne scoperta l'identità, ma non riesce ad ucciderlo prima di aver capito il motivo di tanto odio, e il motivo per cui continui a manipolare la sua vita e il suo sentimento di amore per la giovane Mi-do che Oh Dae-soo incontra casualmente (?) sul suo cammino. La vendetta che Oh Dae-soo crede di portare avanti non è altro che una parte della vendetta ben più complessa che Lee Woon-jin sta pazientemente portando a termine negli ultimi 15 anni, ma che medita addirittura dall'infanzia.
Lo spettatore viene condotto all'interno di questo gioco di scatole cinesi (o coreane?), dentro e fuori la mente del protagonista, avanti e indietro nel tempo, attraverso una ricostruzione dei ricordi o di ciò che il protagonista crede di ricordare. La narrazione e' un continuo e ossessivo spingersi oltre i confini del sopportabile sia per il protagonista che per lo spettatore, la cui capacità di guardare viene sfidata e portata inesorabilmente a spingersi contro le barriere che la costringono. Le scatole, e il loro contenuto, del resto sono un elemento scenografico ricorrente, sono gli strumenti tramite i quali Oh Dae-soo e Mi-do vengono di volta in volta a conoscenza di verità sempre più sconvolgenti.
Una struttura narrativa che in verità perde di fascino quando se ne intuiscono in anticipo alcuni passaggi cruciali che lo sceneggiatore aveva previsto di utilizzare come scene madri o rivelazioni ad effetto. Al di là di questo limite, il film tiene lo spettatore inchiodato alla poltrona grazie alla recitazione del bravissimo attore protagonista, alla prese con un personaggio davvero insolito, e grazie soprattutto alle visioni del regista. Park Chan-wook crea un mondo tormentato e un'atmosfera soffocante davvero insolite ed originali con un uso della violenza nient'affatto stilizzata o compiaciuta (come l'ultimo Tarantino), che anzi dona un dinamismo e una crudezza realistica al gioco, altrimenti troppo cervellotico, in cui si ritrova scaraventato lo spettatore. Altro strumento e' un iperrealismo che potrebbe ricordare in alcuni passaggi David Lynch, nella capacità, ad esempio, di creare un mondo semplificato e "infantile" cui è stata strappata l'innocenza.
Al contrario di Lynch, Park Chan-wook fa però in modo, a partire dalla seconda metà del film, di spiegare tutto e di non lasciare troppi dubbi allo spettatore. Tranne nel finale, in cui il regista si concede una lunga sequenza, onirica e imperscrutabile, che risulta in fin dei conti fuori contesto, fuori ritmo e che non aggiunge nulla né alla storia, né alla meraviglia visiva di cui il film comunque abbonda durante tutta la sua durata.
Grazie anche alla raccomandazione dell'ormai onnipresente Quentin Tarantino, che del festival di Cannes era l'anno scorso presidente della giuria, e che, si racconta, si fosse preso una vera e propria "fissa cinefila" per questa pellicola tanto da farle assegnare il Gran Premio della Giuria.
Più che il tema centrale, la vendetta è lo strumento narrativo che conduce lo spettatore attraverso le visioni sempre sorprendenti e originali del regista, e dentro un'ossessione: la segregazione, l'isolamento coatto, e le lacerazioni violente che esse provocano dentro l'anima e sul corpo di chi la vive. Un'ossessione comune a molti registi coreani contemporanei, cresciuti tra la propaganda anti-comunista rivolta contro i fratelli della Corea del Nord e una dolorosa ricerca di liberta' all'interno della propria stessa nazione.
Old Boy trae il suo soggetto dal popolare e omonimo manga giapponese del 1997, i cui diritti sono stati acquistati dal produttore del film a una cifra-record per la Corea; un'operazione che si è rivelata poi del tutto azzeccata e remunerativa. Il film è stato infatti un grande successo commerciale (ha incassato al botteghino coreano più di Kill Bill 2) ed è già in lavorazione l'ormai immancabile remake statunitense. Eppure la storia non è delle più facili: Oh Dae-soo è un uomo qualunque, un po' cialtrone e dedito all'alcol, che inspiegabilmente viene rapito e tenuto imprigionato in una squallida stanza per quindici interminabili anni, senza alcun contatto umano e con l'unica compagnia di un televisore, tramite il quale scopre che la moglie è stata assassinata e la figlia affidata ad un'altra famiglia. Le immagini televisive scandiscono il passare del tempo: quindici anni persi della propria vita, anni di cui Oh Dae-soo riesce a sopportare il peso soltanto grazie alla volontà di scoprire chi abbia potuto punirlo in maniera tanto sadica, e soprattutto perchè.
Quindici anni di rabbia, che fanno crescere in lui un furioso desiderio di vendetta contro i suoi carcerieri. I danni psichici sono ormai molto gravi, ma un giorno, improvvisamente, si ritrova fuori dalla prigione. Finalmente libero. Almeno all'apparenza. Da qui in poi ha inizio un'implacabile ricerca della verità che però si rivela completamente manovrata dal suo carceriere. Oh Dae-soo incontra Lee Woon-jin (il sadico carceriere), soltanto dopo averne scoperta l'identità, ma non riesce ad ucciderlo prima di aver capito il motivo di tanto odio, e il motivo per cui continui a manipolare la sua vita e il suo sentimento di amore per la giovane Mi-do che Oh Dae-soo incontra casualmente (?) sul suo cammino. La vendetta che Oh Dae-soo crede di portare avanti non è altro che una parte della vendetta ben più complessa che Lee Woon-jin sta pazientemente portando a termine negli ultimi 15 anni, ma che medita addirittura dall'infanzia.
Lo spettatore viene condotto all'interno di questo gioco di scatole cinesi (o coreane?), dentro e fuori la mente del protagonista, avanti e indietro nel tempo, attraverso una ricostruzione dei ricordi o di ciò che il protagonista crede di ricordare. La narrazione e' un continuo e ossessivo spingersi oltre i confini del sopportabile sia per il protagonista che per lo spettatore, la cui capacità di guardare viene sfidata e portata inesorabilmente a spingersi contro le barriere che la costringono. Le scatole, e il loro contenuto, del resto sono un elemento scenografico ricorrente, sono gli strumenti tramite i quali Oh Dae-soo e Mi-do vengono di volta in volta a conoscenza di verità sempre più sconvolgenti.
Una struttura narrativa che in verità perde di fascino quando se ne intuiscono in anticipo alcuni passaggi cruciali che lo sceneggiatore aveva previsto di utilizzare come scene madri o rivelazioni ad effetto. Al di là di questo limite, il film tiene lo spettatore inchiodato alla poltrona grazie alla recitazione del bravissimo attore protagonista, alla prese con un personaggio davvero insolito, e grazie soprattutto alle visioni del regista. Park Chan-wook crea un mondo tormentato e un'atmosfera soffocante davvero insolite ed originali con un uso della violenza nient'affatto stilizzata o compiaciuta (come l'ultimo Tarantino), che anzi dona un dinamismo e una crudezza realistica al gioco, altrimenti troppo cervellotico, in cui si ritrova scaraventato lo spettatore. Altro strumento e' un iperrealismo che potrebbe ricordare in alcuni passaggi David Lynch, nella capacità, ad esempio, di creare un mondo semplificato e "infantile" cui è stata strappata l'innocenza.
Al contrario di Lynch, Park Chan-wook fa però in modo, a partire dalla seconda metà del film, di spiegare tutto e di non lasciare troppi dubbi allo spettatore. Tranne nel finale, in cui il regista si concede una lunga sequenza, onirica e imperscrutabile, che risulta in fin dei conti fuori contesto, fuori ritmo e che non aggiunge nulla né alla storia, né alla meraviglia visiva di cui il film comunque abbonda durante tutta la sua durata.
I lettori hanno scritto 16 commenti
- commento magari fabio si sarebbe aspettato un "delle sue citazioni" :)
- commento Magari avrebbe potuto dirlo con tono meno offensivo. :)
- commento be', sull'educazione non c'e' nemmeno da discutere, intendevo scherzare sul come si chiamano di solito le scopiazzature tarantiniane.
- commento Sì, sì, ma avevo capito, eh. :)
- commento avevi capito, come no :)
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