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Speciale del 21 09 2007

 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Speciale

Venezia 64 - Cinesi, piccoli dei e false verità

di Alice Trippolini

Cinesi, cinesi e ancora cinesi. Siamo d'accordo, non è eticamente corretto essere razzisti. Però Marco Muller, direttore della Mostra del cinema di Venezia, noto sinologo, ha esagerato. È colpa sua se il Leone d'oro della 64. edizione della Mostra è andato ad Ang Lee e al suo Lust, caution: bel film, per carità, ma si poteva fare di meglio. Per esempio, far vincere La graine e le mulet di Abdellatif Kechiche, incredibilmente lungo, ma appassionato, sincero, pieno di vita e di tematiche difficili. Oppure It's a free world.. di Ken Loach, altra pellicola forte, dove il regista inglese torna ai bei tempi di My name is Joe dimenticando la retorica di Il vento che accarezza l'erba. Invece la giuria ha deciso di riconfermare Ang Lee, attraverso il solito verdetto 'sofferto' (perché soffrono questi giurati? Non fanno nulla per dieci giorni salvo vedere film, mangiare, bere e partecipare a inutili feste a spese della Biennale) inventandosi nuovi leoni ed ex-aequo per non scontentare nessuno. Fino al giorno prima della conclusione, i favoriti erano Brian De Palma e Kechiche, ma il russo, non si capisce come mai, ha sconvolto tutti. Dopo la paura, è arrivata l'indignazione per i premi dati a casaccio, tra cui spicca l'assenza del fantastico The Darjeeling Limited di Wes Anderson. Una commedia, allora? Perché le commedie non vincono mai neanche un premio di consolazione? E che dire delle belle interpretazioni di George Clooney, Micheal Caine, Casey Affleck e Tommy Lee Jones snobbati per Brad? Questi erano i toni del ritorno a casa in auto della sottoscritta e del suo gruppo di cinefili arrabbiati, che hanno ascoltato per radio il verdetto della giuria di qualità. Vagamente razzisti, potreste pensare.

Forse è la delusione sconcertante nel vedere per l'ennesima volta i film italiani in Concorso che fanno ridere la platea e ci costringono a prendercela con la nazione. Magari ci siamo stufati dei verdetti ecumenici pilotati dai direttori e dalle case di distribuzione. O forse è l'umidità, il caldo, i prezzi allucinanti e le file, anche con un accredito 'blu'. Chi non c'era non può capire la pazzia che dilaga in un festival male organizzato in un posto dimenticato da dio, con proiezioni al limite della tollerabilità (ma come faccio a vedere The Nanny diaries alle 24.00 e a svegliarmi alle 7.00 per vedere Rohmer alle 8.30) e gli accreditati snobbati dagli autoctoni che ti alzano i prezzi apposta quando ti riconoscono come turista ("Lei è qui per la Mostra?"). Si diventa un po' pazzi, si finisce per prendersela con i critici italiani che scrivono sui giornali ("Rondi non capisce, è un critico patriottico") e ci si affeziona al film che ci ha colpito di più, contro tutto e tutti. Finita l'abbuffata, si torna a casa un po' storditi, dimenticando in fretta i film orribili e ricordando solo quelli visti da sobri a stomaco pieno. Detto questo, il film che ha segnato la sottoscritta è una pellicola che non uscirà mai in sala. Si chiama Small Gods, dello sconosciuto Dimitri Karakatsanis, presentato nella sezione più interessante per sperimentazioni e originalità: la Settimana della Critica. La trama è un po' strana, ma neanche tanto. Si tratta, essenzialmente, di un viaggio di purificazione, se così si può definire. La protagonista, Elena (Steffi Peters), è in ospedale dopo un incidente in cui è morto suo figlio. All'improvviso arriva in ospedale un ragazzo, David (Titus De Voogt), che la abbraccia e la porta via, caricandola sul suo camper e portandola in giro per il Belgio. I due non si parlano, viaggiano in giro per il paese, fermandosi per fare la spesa, lavarsi e guardare di tanto in tanto il paesaggio. La narrazione è costruita sui flashback: il film è la storia di Elena, che racconta ad un uomo (psicologo o avvocato) questi mesi in giro per il paese mentre la polizia la stava cercando disperatamente. Il viaggio sembra avere un meta che solo David conosce. Elena non fa domande: dorme e guarda fuori dal finestrino, come se non fosse presente a se stessa. Un giorno, David salva dallo stupro Sara, una ragazzina scappata da una comunità. Anche Sara si unisce a loro in questo viaggio irreale, dove non c'è bisogno di parole e tutti devono fare i conti con i mostri che hanno dentro. Attraverso il racconto, scopriamo che il camper era rubato, che la morte del figlio di Elena non è stata un incidente e che la meta del viaggio è vendicarsi, per esorcizzare il passato. David e Sara, scomparsi nel nulla, sono esistiti davvero? O sono solo dei 'Piccoli dei'? Il bello di questo piccolissimo film è la fotografia: una serie di quadri e inquadrature degne di un maestro, che giocano molto con la saturazione, il bianco e nero, il fuoco e fuori fuoco e sono portatrici di significato almeno quanto i pochi dialoghi.

Non c'è solo questo film, ovviamente. La SIC ci ha offerto The most distant course di Zui YaoYuan De Juli poetico e somigliante nello stile al vecchio Kim Ki duk. Il figlio ricco e fortunato di Alfonso Cuaron ha presentato un filmino di 75 minuti neanche tanto originale, ma bello. Aňo Uňa  è la storia di una cotta estiva tra un messicano quattordicenne e una ventenne newyorkese in vacanza studio. Il film non è un vero film: è fatto di foto, prima in bianco e nero e poi colorate, a cui si è aggiunto il sonoro dei due protagonisti. Sembra strano, ma si segue bene. Inutile dire che le foto sono azzeccate. Sempre nella Sic, lo sceneggiatore John August, che ha lavorato con l'omaggiato Tim Burton, ha presentato la sua opera prima The nines: un film a episodi che mescola mondo della tv e realtà virtuale, con Hope Davis e il bravo e bello Ryan Reynolds. Vagamente lynchiano, dato che i protagonisti impersonano diversi personaggi a seconda dell'episodio. Da vedere, se esce in sala, chiaramente.

Quanto ai vip, i soliti luoghi comuni: Brad Pitt se la tira, George Clooney ha reagito male alle insinuazioni sul suo doppio lavoro di attore impegnato in politica e testimonial della Nestlè, Heath Ledger era annoiato, ma disponibile. Risate con Bill Murray e Jason Schwartzman. Keira è scheletrica, le cinesi sono bellissime e curatissime. Veniamo agli italiani: giovani mandati al massacro da troppa presunzione, come nel caso di Paolo Franchi, o da troppi soldi e ingerenze dei produttori, come si spera sia avvenuto a Vincenzo Marra. Onore a Massimo Coppola e al suo documentario su Bianciardi, operaio e scrittore de La vita agra e a Gianni Zanasi, che con il suo Non pensarci ci ha rincuorato: il cinema italiano ce la potrebbe anche fare. Andate a vedere il mitico Valerione Mastandrea in versione chitarrista punk. Tra le sponsorizzazioni spudorate c'è il documentario sui Negramaro, che per l'occasione hanno suonato davanti al delirio delle adolescenti e non, purtroppo. La ragazza del Lago non è male, ma sembra una fiction: il solito problema che abbiamo noi italiani quando una cosa frutta soldi. L'altro problema è difendere a spada tratta i nostri registi anche quando sbagliano o fanno meno di quello che potrebbero. Marra è andato in conferenza stampa arrabbiatissimo per i fischi in sala e ha risposto in modo provocatorio a domande neanche tanto cattive. Eppure, il suo L'ora di punta è un film mediocre, non da festival. Oltre al romanzone Espiazione, al sopravvalutato I'm not there e al pugno nello stomaco di Redacted, tutto filmato in digitale e in soggettiva, citiamo l'horror Rec di Jaume Balaguerò.

Questa potrebbe essere definita come la Mostra dei cowboy (che spuntavano in ogni dove: dalla retrospettiva, ai Macaroni western sempre cinesi, al Concorso) e della 'presa diretta' che gioca sul binomio finzione/realtà portandolo alle estreme conseguenze. Infatti, sia Redacted, che Rec, fino a Le ragioni dell'Aragosta di Sabina Guzzanti, hanno costruito false verità. De Palma lo ha fatto attraverso la videocamera di un soldato americano in Iraq, che filma le chiacchiere da caserma, lo stupro, il rapimento e il pentimento a casa. Tutto vero? No, finto vero. Lo stesso fa Balaguerò, creando un horror claustrofobico, probabilmente girato nello stesso palazzo di Para entrar a vivir dello scorso anno. Il tutto è mostrato attraverso la cinepresa di un cameraman che, insieme alla presentatrice, segue per un notte una squadra di pompieri al lavoro. La troupe, i pompieri e gli abitanti di un palazzo di Barcellona, verranno isolati dalle autorità, con tanto di esercito e medici in tuta isolante: un virus? Un'infezione letale? Un mostro? Ciò che conta è che noi spettatori 'siamo' gli occhi di Pablo, il cameraman invisibile, che spegne e accende la realtà tenendoci sulla corda. Sabina Guzzanti, che ha fatto piangere calde lacrime anche quest'anno, è arrivata con un film che sconvolge le previsioni. Sabina ha creato un falso documentario sul dopo Viva Zapatero!, fregando tutti i detrattori sul tempo. Il documentario riguarda la crisi di identità e motivazione di un gruppo di comici, persi nel tentativo di rimanere fedeli a se stessi, cambiare e non lasciarsi politicizzare. Alla fine era tutto finto, ma in parte è vero. Insomma, con tutte queste videocamere, tutti giocano al realismo, riflettendoci su quando va bene e tenendoci comunque svegli. Cosa è il reale, poi? Più vengo al festival e meno ho chiara la risposta.

 
 
 
 
 
 
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