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Rubrica del 01 04 2012

 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Rubrica

Premi Oscar, All'Accademy l'inglese non va più di moda

di Keivan Karimi

L'edizione 2012 dei Premi Oscar come al solito consegnati al Kodak Theatre sulla Hollywood Boulevard di Los Angeles hanno confermato una tendenza già piuttosto preponderante nei giudizi dell'Accademy degli ultimi anni; il fatto in questione riguarda il trionfo eccezionale, dal punto di vista di premiazioni e clamore suscitato, del film The Artist, pellicola francese del regista Michel Hazanavicius, un vero e proprio omaggio al cinema muto hollywoodiano, quello degli anni '20, alla successiva nascita del musical e a quelle star d'oltreoceano capaci di incantare al solo battito di ciglia. Il successo di The Artist si basa dunque fondamentalmente sulla brillantezza ed il divertente modo di riproporre un tipo di cinematografia che in America viene interpretata come la base fondante di tutto il cinema moderno e contemporaneo, ma le 5 statuette conferite al progetto transalpino rappresentano l'ennesimo capitolo di una Accademy ormai affascinata dai lavori di matrice non anglofona. L'Oscar al miglior attore protagonista Jean Dujardin è dovuto sì all'eleganza formale ed interpretativa che riporta alla mente il primo Clark Gable o un novello Rodolfo Valentino, ma anche per una tipologia di recitazione che si discosta da quella dei divi statunitensi, di coloro attinenti alle storie reali, dal Brad Pitt che incarna il geniale manager di football in Moneyball o dal George Clooney uomo d'affari turbato e distrutto in Paradiso amaro.

Dujardin è l'emblema che qualcuno ad Hollywood apprezza in maniera piuttosto evidente quell'arte attoriale vecchio stampo, un po' neorealista e un po' fantasiosa, lontana dai monologhi e dagli esimi discorsi stile Al Pacino. Dicevamo di una tendenza dell'Accademy ormai appurata e regolare, che annovera tra gli ultimi premiati non anglofoni anche l'austriaco Cristoph Waltz, generale nazista crudele e brillante nell'ultima fatica di Tarantino Bastardi senza gloria. Così come gli ispanici Penelope Cruz e Javier Bardem, coppia nella vita e nel vanto di aver conquistato per le interpretazioni di grandi pellicole l'ambita statuetta come migliori attori non protagonisti. Fino ad arrivare al nostro Roberto Benigni, folle mente e braccio de La vita è bella, mattatore esuberante che fece impazzire la platea di Los Angeles con un'interpretazione alla ricerca di un'antica comicità fatta di movenze, ritmo, estro e stravaganza. Non è dunque troppo inappropriato analizzare il fatto che la giuria dei premi cinematografici più ambiti a livello internazionale abbia un debole per un modo di fare cinema estroverso e brillante, capace di ricordare un po' la vecchia Hollywood, quella degli interpreti tuttofare e di un cinema tanto spettacolare nel contenuto quanto intenso ed autoriale nella forma.

E quasi automatico quanto dovuto sarà l'apporto di tali interpreti europei non anglofoni nel mondo dorato del cinema statunitense, divenuta una seconda casa per molti attori di livello e qualità provenienti dal vecchio continente, tendenza sviluppatasi già nei primi decenni della nascita del mondo di celluloide, quando dive del calibro di Greta Garbo o Marlene Dietrich si spostarono negli Usa attratte da lussi e fortune offerte dalle Majors. Mettiamoci anche quel fascino quasi esotico poco attinente dagli standard d'oltreoceano che è sinonimo di novità ed originalità a favore degli spettatori. Occhio allora a Dujardin ed ai suoi comprimari, la statuetta appena vinta è statisticamente solo l'inizio di un'avventura nella favolosa Hollywood così generosa per i protagonisti d'Europa.

 
 
 
 
 
 
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