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libera critica cinematografica

 
 
 
 
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Voti

Il voto del redattore

  • voto
  • 4/5
  • valutazione
  • Un film d'altri tempi che non delude
  •  
 
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Il voto dei lettori

  • voto medio
  • 4.2/5
  • numero votanti
  • Questo film è stato votato da 17 lettori
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Info

The Interpreter

di Sydney Pollack

 
    Dati
  • Titolo originale: The Interpreter
  • Soggetto: Martin Stellman e Brian Ward
  • Sceneggiatura: Charles Randolph, Scott Frank e Steven Zaillian
  • Genere: Drammatico - Thriller
  • Durata: 128 min.
     
  • Nazionalità: UK, USA, Francia
  • Anno: 2005
  • Produzione: Working Title Films, Misher Films, Mirage Entertainment, Studio Canal +
  • Distribuzione: Eagle Pictures
  • Data di uscita: 00 00 0000
 
 
 
 
 
 
 
 
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Recensione

Caught in Translation

di Fabrizio Ferrero

Nel 1959, mentre stava girando Intrigo Internazionale (North by Northwest), Alfred Hitchcock si vide categoricamente rifiutare la possibilità di girare alcune scene all'interno del Palazzo di Vetro dell'ONU; era un'altra epoca e, nonostante la guerra fredda, le Nazioni Unite contavano ancora qualcosa e molte dispute si dirimevano in quel luogo deputato al mantenimento almeno di una parvenza di pace. Quarantasei anni dopo (e a sessanta dalla fondazione) l'ONU conta meno delle solette antisudore delle scarpe di Bush, anche se leggermente di più dei suoi zerbini fraintesi. Forse è grazie a questa contingenza abbastanza deprimente e alla necessità di rilanciare l'istituzione, anche in modo creativo, che Sydney Pollack riesce dove Hitchcock aveva fallito e The Interpreter si aggiudica il primato di essere il primo film nella storia del cinema ad essere girato, in parte, nel Palazzo sull'East River, utilizzando al massimo i weekend, quando l'edificio era vuoto, ma impiegando i dipendenti dell'organizzazione come comparse.

La trama del film in qualche modo omaggia Hitch, più dalle parti di L'Uomo Che Sapeva Troppo (The Man Who Knew Too Much, 1956) che di Intrigo Internazionale: c'è un complotto omicida in primo piano e c'è una persona che viene a conoscenza dei propositi degli assassini in modo totalmente casuale. Silvia Broome è interprete alle Nazioni Unite e mentre si trova nella sua cabina di traduzione, a edificio vuoto, sente in cuffia due persone che sussurrano complottando l'assassinio del presidente dell'immaginario stato africano del Matobo. In questo paese da tempo avvengono massacri, genocidi, pulizia etnica con il labilissimo pretesto della minaccia terroristica da parte dell'etnia vittima di questa barbarie. Silvia viene affidata a due agenti del Servizio Segreto, Tobin e Dot, ma si ritrova a non essere creduta, con il proprio passato scandagliato fin nei minimi particolari, sottoposta al giudizio della macchina della verità. C'è un particolare che pesa su di lei: è di nazionalità matobiana ed il suo passato risulta in qualche modo oscuro: questo può fare di lei una sospettata nonostante la sua esistenza stia diventando un incubo ogni giorno di più. In ogni caso Servizio Segreto e Fbi riconoscono come fondate le ipotesi di complotto e le indagini partono: Silvia è ora sotto la protezione di Tobin e della sua squadra.

The Intepreter segna il ritorno di un certo modo di fare cinema di qualità tipico degli anni '70, nella fattispecie assistiamo ad un recupero delle proprie radici da parte dello stesso Pollack: viene spontaneo pensare immediatamente a I Tre Giorni del Condor (Three Days of the Condor, 1975) e a tutto un filone di thriller politico - paranoidi che periodicamente riaffiora nel cinema, talvolta con risultati discontinui, talaltra con risultati ottimi. Pollack è un vero e proprio artigiano: niente effetti speciali invadenti, niente uso dell'ipertecnologico in qualità di personaggio. Solo un meccanismo narrativo implacabile che procede a incastri successivi, con un depositarsi, livello su livello, di tensione crescente che si accumula, tendendo all'implosione, con una certa lentezza che, per alcuni, può costituire uno dei punti deboli della pellicola. In realtà si tratta di un pregio (checché ne dica Celentano) all'interno di un oggetto cinematografico così solido e levigato, così mobile di legno massiccio fatto a mano, in opposizione ad un esile scaffale di compensato fatto in grande serie, che rappresenta la qualità media dei film contemporanei. La lentezza rappresenta la possibilità di evitare certi parossismi isterici di iper-azione, certi inanellamenti inutili e non credibili di inseguimenti, sparatorie, esplosioni; insomma questo non è un Die Hard qualsiasi. Il risultato è che la massima cura va all'ambientazione e ai dialoghi, mai banali, a volte profondi in virtù del fatto che c'è un tentativo d'incontro e di confronto da parte dei due personaggi di Silvia e Tobin: entrambi stanno cercando di riassestare in qualche modo le loro vite. Tobin è vedovo da un paio di settimane (un Sean Penn più melanconico e rugoso del solito, oltre che tormentatissimo), masochisticamente continua ad ascoltare la voce della moglie registrata sulla segreteria telefonica e tenta di restare in piedi, pur crogiolandosi nel dolore. Silvia scorazza per la città su una Vespa, in modo quasi morettiano, e vede il suo passato drammatico inseguirla a Manhattan e riemergere inaspettatamente, scaraventandole addosso angosciosi dubbi su chi fidarsi o meno; anche lei ha subito una perdita incommensurabile molto tempo prima.

La quasi totale assenza di tensione erotica fra i due lascia spazio allo scambio verbale, filosofico, quando emerge il tema della vendetta connessa con il dolore. La morte della moglie di Tobin è stata causata dall'amante di lei in un incidente d'auto; quando Silvia, senza alcun preambolo, viene messa al corrente di questa circostanza, lei racconta un'usanza africana secondo la quale se un omicida viene catturato, viene legato e gettato in un fiume; sta alla famiglia della vittima decidere se salvarlo o lasciarlo affogare. Se l'assassino è lasciato affogare si otterrà vendetta ma si vivrà un dolore eterno, se viceversa viene salvato, il lutto avrà termine. "La vendetta è una forma pigra di dolore" chiosa Silvia, ma toccherà a lei in prima persona richiamare alla mente la necessità del perdono.

Il linguaggio è un altro tema del film. Fra le righe si può leggere l'indicazione della necessità di riportare le parole alla loro essenza di significato, proprio durante uno scorcio storico in cui esse vengono regolarmente piegate, distorte, vituperate ad uso e consumo del potere (altro morettismo: "le parole sono importanti"). Tobin lavora con le facce, Silvia lavora con le parole, crede fermamente nel linguaggio, in modo quasi magico. Lo dimostra nel momento in cui zittisce Tobin che sta per pronunciare i nomi di alcune persone ormai morte, così come nella sua convinzione della veridicità di ciò che ha sentito sussurrare nella sala dell'assemblea generale.

The Interpreter è una prova attoriale intensa e magistrale per Nicole Kidman e Sean Penn. Peccato per Catherine Keener che in Essere John Malkovich aveva dimostrato personalità e bravura e qui viene relegata ad un ruolo - tappezzeria.

 

 
 
 
 
 
 
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Commenti
 

I lettori hanno scritto 17 commenti

 
 
utente
facciadakulo
  • indirizzo IP 81.208.60.196
  • data e ora Mercoledì 08 Marzo 2006 [23:38]
  • commento Non l'ho visto ancora.
 
 
 
 
 
utente
grahus
  • indirizzo IP 193.193.172.200
  • data e ora Lunedì 24 Aprile 2006 [12:15]
  • commento sean penn e' il migliore attore in circolazione. questo almeno salva un film mediocre.
 
 
 
 
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