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libera critica cinematografica

 
 
 
 
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Locandina
 
 
 
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Trama

Brandon, trentenne newyorkese di successo, passa il suo tempo libero saltando da una donna all'altra. L'arrivo della sorella Sissy complicherà non poco la sua vita.

 
 
 
 
 
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Voti

Il voto del redattore

  • voto
  • 3.5/5
  • valutazione
  • Un sodalizio artistico (McQueen/Fassbender) che si avvia a diventare proverbiale, la regia asciutta, gli ambienti, i dialoghi, la colonna sonora minimali, la recitazione misurata e magistrale: un piccolo saggio di bravura e di dolore.
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Il voto dei lettori

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Info

Shame

di Steve McQueen

 
    Dati
  • Titolo originale: Shame
  • Soggetto:
  • Sceneggiatura: Steve McQueen, Abi Morgan
  • Genere: Drammatico - Psicologico
  • Durata: 99 min.
     
  • Nazionalità: U.K.
  • Anno: 2012
  • Produzione: See Saw Films, Film4
  • Distribuzione: Bim Distribuzione
  • Data di uscita: 13 01 2012
 
 
 
 
 
 
 
 
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Recensione

New York I love you but you're bringing me down

di Stefania Cappellini

Shame è il secondo lungometraggio scritto (a quattro mani con Abi Morgan) e diretto dall'artista britannico Steve McQueen, tra i pochi a poter vantare di aver calcato i lidi di Venezia sia come regista che come artista visuale: unico rappresentante della Gran Bretagna alla 53ª Biennale dove ha presentato un lavoro dal titolo Giardini, alla 68ª Mostra del cinema ha invece partecipato con questo lungometraggio, grazie al quale il suo protagonista ha vinto la Coppa Volpi come migliore attore.
Shame è la storia di alcuni giorni di vita di Brandon, giovane bello e danaroso i cui contorni vengono definiti da subito: si alza nudo dal letto, ascolta i messaggi contenuti nella segreteria telefonica da cui proviene una voce di donna che insiste perchè risponda (e lui naturalmente non lo fa), si reca al lavoro sulla metro facendosi fantasie sulla ragazza che gli siede di fronte, arriva nel lussuoso ufficio, quando stacca si incontra con una prostituta e torna a casa dove consuma un pasto frugale mentre guarda un porno sul computer.
E così in avanti fino a che inaspettatamente trova nel suo appartamento una donna: la sorella Sissi la cui voce abbiamo già sentito dai messaggi in segreteria.
Urtato e infastidito dalla presenza della ragazza che gli impedisce di dedicarsi interamente alle sue passioni, inizia a prendere forma il titolo del film: quella “vergogna” che Brandon prova nel momento in cui (sebbene contro la propria volontà) non è più solo e deve perciò fare i conti con qualcuno che fa parte della sua vita e che della sua vita ignora una parte consistente.
Tutto alla luce livida di New York che traspare dalle pareti di vetro di cui sono fatti gli ambienti attraverso cui Brandon ci conduce.

Se in Hunger la gabbia che imprigionava il protagonista era quella reale del carcere in cui era rinchiuso, in Shame sono gli appartamenti con le pareti di vetro, le finestre dell'ufficio, le vetrate che permettono al protagonista di vedere dalla strada coppie che fanno sesso incuranti, come lui, di essere visti da chiunque. Il vetro di queste gabbie lascia passare il grigiore del giorno di New York che sembra essere rischiarato dalle insegne e dai lampioni di una notte più congeniale al protagonista.
Queste gabbie però, vuoi per la suggestione data dalla personalità e dalla formazione di McQueen, evocano anche quelle, impalpabili e pur inattraversabili, dipinte dall'artista britannico forse più noto e rappresentativo del XX secolo: Francis Bacon.
Il tema del film è infatti probabilmente l'incomunicabilità che vive Brandon: così famelico e bisognoso di un contatto intimo e troppo umano, schiavo della dipendenza da sesso e pornografia e così incapace di vivere la quotidianità con la squinternata sorella in cerca d'affetto e di rassicurazioni. Figurarsi riuscire ad amare una donna.
E per rendere appieno il personaggio Michael Fassbender è stato generoso eppure misurato: per metà del film è nudo ma non mette a nudo i suoi sentimenti, appare sempre indecifrabile e inarrivabile, schiavo della compulsione a ricercare sesso, in qualsiasi forma.
Sono però almeno un paio i momenti in cui sembra aprirsi un varco nella barriera emotiva del protagonista: il primo lo si incontra quando, invitato dalla sorella cantante ad assistere ad un suo concerto in un locale, non riesce a trattenere le lacrime. La scena è talmente semplice da risultare scontata: sulle prima note del brano New York New York si prova un certo fastidio perchè viene da chiedersi se lo sceneggiatore non avrebbe potuto scegliere un pezzo un po' meno inflazionato. Tuttavia il tono suadente e disperato di Sissi (quasi nudo anch'esso) unito al primissimo piano del volto di lei si intona talmente tanto con l'atmosfera del film che riesce a scalfire la corazza di Brandon e costituisce uno dei momenti più lirici di questa pellicola.
E offre anche la cifra dello stile del regista tanto nei suo film d'artista che in questo secondo a soggetto: non si fanno sconti all'immagine, alla tristezza e alla lentezza.
McQueen infatti sembra non conoscere l'ellissi temporale: il brano viene svolto per intero e, mentre la scena si libra verso momenti lynchiani alla Mullholland Drive, lo spettatore ha il tempo di immergersi nello scontro/incontro che unisce il protagonista alla sorella: così tanta dolcezza può ucciderlo, ed è per questo che di lì a poco farà di tutto per allontanarla. Mentre Sissi canta la macchina da presa le sta come incollata al volto nel tentativo di scrutare ogni emozione e percepire ogni sussurro.
Non fa quasi uso dell'ellissi anche quando un Brandon irritato esce da casa per cercare di sfogare la sua rabbia e le sue pulsioni con una sana corsa, notturna, seguita dal carrello della macchina da presa che ci offre, stavolta sì, le luci di New York così come siamo abituati a vederle.
Sissi è interpretata dalla brava Carey Mulligan, giovane attrice inglese che lo scorso anno si è distinta come protagonista di Non lasciarmi, il film diretto da Mark Romanek e tratto dal romanzo omonimo di Kazuo Ishiguro.
La sua fisicità, l'eccentricità dei suoi abiti, la profondità dei suoi occhi scuri ben si accordano con la figura algida e compassata del personaggio interpretato da Michael Fassbender, l'attore feticcio di McQueen, che attualmente sta lavorando con il regista al suo terzo lungometraggio Twelve years a slave.
Fassbender è credibile nell'impersonare Brandon e lo rende un personaggio tragico, preso com'è tra la condanna e la possibile redenzione, tra la compulsione e il tentativo di cambiamento, tra l'amore e l'impossibilità di abbandonarsi a qualsiasi forma di affetto. Per lui le donne è meglio che siano solo un mezzo, amarle vorrebbe dire impattare contro un fallimento. Per questo vorrebbe che la sorella non fosse testimone della sua condotta e che la collega con cui sembra imbastire una relazione non gli piacesse tanto, talmente tanto da non riuscire a dimostrarglielo.
Per quanto esibito, mostrato e particolareggiato il sesso non è il tema di questo film ma solo uno dei descrittori della persona di Brandon: il centro della storia è l'impossibilità di relazione e di comunicazione che vive il protagonista. Una parabola che potrebbe essere quella di ognuno, ciascuno con le proprie dipendenze e vie di fuga: al sesso potrebbe sostituirsi la droga, l'alcool, il gioco o altro ancora.
Il film non attira critiche tranne una, sostanziale: l'epilogo, la cui scontatezza si avverte e che sembra volerci condurre ad una qualche forma di improbabile happy end.
Se fino a questo momento si è avvertita una certa indulgenza e umana comprensione nei confronti di Brandon che, nella nottata che precede la conclusione della storia, dà il meglio di sé per tentare l'evasione dalla gabbia degli affetti, è proprio sul finale che il regista sembra esprimere una condanna (“Shame on you, Brandon!”) cui per il protagonista è difficile sottrarsi. Ovvero: è proprio quando lo spettatore è forse più vicino al protagonista e ne comprende le difficoltà che McQueen affonda una stilettata moralistica.
Detto questo non ci sono a nostro avviso altri limiti per questo film che fa della propria singolarità la possibile difesa contro ogni attacco, ricordando la trama e riassumendo in soli due i quattro personaggi principali di quel Naked di un altro regista inglese, l'ottimo (benchè distante da McQueen) Mike Leigh.
 
 
 
 
 
 
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