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del 27 11 2011

 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Novità Lindau novembre

Riceviamo e pubblichiamo:

Cos'è il cinema gotico italiano? La domanda è più spinosa di quel che sembra... 

Le Edizioni Lindau presentano


IL PIÙ COMPLETO E AGGIORNATO STUDIO SUL GOTICO AL CINEMA



FANTASMI D'AMORE
Il gotico italiano tra cinema, letteratura e tv



di Roberto Curti

Collana «Saggi» | pp 504 + inserto fotografico | euro 32,00 | ISBN 978-88-7180-959-5
IN LIBRERIA DAL 17 NOVEMBRE

Questo volume si spinge a comprendere pellicole sui generis che denotano analogie e risonanze a tratti sorprendenti con il cuore nero dell’esperienza gotica. Ed è attraverso questi esempi che vale la pena chiedersi se il gotico abbia ancora un margine di sopravvivenza e una ragione di esistere nel panorama italiano odierno, o se l’ottusa sazietà che contraddistingue il nostro quotidiano abbia avuto il sopravvento, e i mostri generati dal sonno della ragione abbiano spazzato via quelli, ben più inermi, nati dalla veglia dell’immaginazione.


Streghe bellissime, vampire seduttrici, sensuali spiriti tornati dall’oltretomba per vendicarsi. Con film come I vampiri di Riccardo Freda e La maschera del demonio di Mario Bava, il cinema gotico italiano offrì agli spettatori eccesso e trasgressione, incarnati negli anni ’60 da una vera e propria diva come Barbara Steele. Ma l’enfasi sulla violenza, la sfida alla censura e l’attenzione alla sessualità non pregiudicavano un approccio spesso sorprendente al fantastico e ai suoi miti.
Fantasmi d’amore ripercorre la storia del genere dalle origini a oggi. Ne analizza i temi, lo stile, le avventure produttive e commerciali, il rapporto con le fonti letterarie e i legami con la storia, la cultura e il costume del nostro paese; passa in rassegna i capolavori e le opere più oscure, i registi che ne hanno fatto la storia, come Bava, Freda, Antonio Margheriti e Dario Argento, e quegli autori che con esso si sono cimentati in maniera imprevedibile e inusuale, come Federico Fellini, Dino Risi, Pupi Avati; esamina produzioni televisive quale il celeberrimo Il segno del comando e dedica spazio ai giovani cineasti indipendenti degli anni 2000. Tutto ciò fa del libro lo studio più esauriente e approfondito di un genere complesso e affascinante che ha segnato la storia del cinema italiano.


L'AUTORE Roberto Curti è redattore di «Blow Up» e collabora al Mereghetti. È autore di monografie su James Coburn e Tonino Valerii e ha contribuito a numerose pubblicazioni edite da festival internazionali. Per Lindau ha pubblicato Sex and Violence - Percorsi nel cinema estremo (2003, con Tommaso La Selva), Italia odia - Il cinema poliziesco italiano (2006), Stanley Kubrick. Rapina a mano armata (2007), Demoni e dei (2009).


DAL LIBRO All’esordio con La maschera del demonio, prodotto dalla Galatea, Bava ha a disposizione uno spiegamento di mezzi più congruo rispetto a quanto accadrà con il prosieguo del filone. In accordo col direttore di produzione Massimo De Rita le riprese vengono allungate di una settimana, così da poter valorizzare l’aspetto visivo del film, dall’uso del dolly alla composizione dell’inquadratura, alla cura della fotografia in bianco e nero, con le luci disposte «con il duplice fine di creare l’atmosfera di tensione e visionarietà […] e di mascherare quel poco di scenografia impegnata». L’esordiente regista sceglie il piano-sequenza come strumento per rappresentare il fantastico e generare inquietudine, quando mostra la presenza invisibile che emerge da dietro il camino e si aggira nei corridoi del castello. Lo stesso dicasi per la lunga carrellata all’indietro che anticipa la figlia dell’oste nel suo percorso dalla locanda alla stalla, dove la posizione della mdp, posta quasi al livello del terreno a inquadrare la ragazzina dal basso all’alto, ne enfatizza la solitudine rispetto all’ambiente circostante ed esaspera il passaggio da una dimensione familiare a una minacciosa, con la progressiva scomparsa dell’edificio alle sue spalle. Una panoramica a 360 gradi (come quella all’interno della cripta che ne svela per la prima volta gli spazi ai visitatori) non serve a farci vedere di più, ma ad acuire il senso di minaccia, e la cinepresa diventa essa stessa personaggio, in grado di vedere più (o meglio) dei personaggi e orientarne la visione, come nella scena all’interno della stalla in cui un carrello in avanti mostra, incorniciato da una finestra, il cimitero dove risorgerà Javutic.Se il copione di La frusta e il corpo è ancorato a cliché obsoleti come una mano che entra in campo all’improvviso e si appoggia sulla spalla di un personaggio, e si rifà alle atmosfere dei lavori cormaniani, è ovvio che Bava non si illude di impaurire lo spettatore mostrando orme fangose o giocando a rimpiattino col fantasma. E, comprensibilmente, si dedica ad altro, amplificando la dimensione soggettiva e interiore della paura, con la mano di Kurt che, distorta dall’obiettivo grandangolare, riempie lo schermo, dal punto di vista di Nevenka. E facendo di La frusta e il corpo il primo gotico italiano incentrato sui fantasmi dell’inconscio, anticipazione dei «testi paranoici» che caratterizzeranno tanto cinema gotico a venire.Con i I tre volti della paura, Bava fa coesistere tre differenti approcci all’horror: un episodio di pura suspense (Il telefono) che discende da La ragazza che sapeva troppo e certifica la permeabilità con il thriller, ma più interessante per il sottotesto erotico che per la messa in scena della paura condizionata dall’ambientazione huis clos; un gotico di stampo cormaniano (I Wurdalak) più legato alla coerenza narrativa che alle divagazioni stilistiche; e il più libero La goccia d’acqua, dove il regista mette in scena tattiche orrorifiche terroristiche, che toccano nervi scoperti (il fastidio del ronzio di una mosca e di un rubinetto che gocciola), e paure profonde (un corridoio buio, una luce che va e viene) con una disinvoltura nei confronti delle regole e un’attenzione all’aspetto multisensoriale dell’orrido che anticipa quella di Argento in Suspiria e Inferno. In questo modo Bava trasforma una tipica storia di fantasmi in qualcosa di più moderno e originale. In La goccia d’acqua il regista predispone un elaborato tessuto sonoro a fare da contrappunto alla vendetta d’oltretomba che racconta. L’apparizione dell’aldilà è preannunciata da una serie di segnali acustici che agiscono sulla percezione soggettiva di miss Chester come su quella dello spettatore: l’estenuante regolarità della goccia d’acqua e lo snervante ronzio dell’insetto sono le avvisaglie di un assalto sensoriale che prelude all’apparizione scioccante del fantasma.Di Chiara insiste sui due attributi principali dello spettro della vecchia signora, l’ubiquità e l’inesorabilità, resi rispettivamente con la dialettica campo/controcampo e il mutamento dell’asse di ripresa, e con il trucco del carrello su cui avanza il manichino di cera. Bava si serve di un espediente analogo a quello utilizzato da Jean Cocteau nella scena in cui Josette Day visita per la prima volta il castello incantato in La bella e la bestia, poi ripreso tra gli altri da William Castle in Il mostro di sangue e La casa dei fantasmi, amplificandone gli effetti. In questo caso il regista sanremese manipola la percezione dello spettatore, fondando lo shock visivo sulla contraddizione tra mobilità e immobilità: lo spettro procede innaturalmente, scivolando verso la cinepresa, e così demolisce le nostre nozioni basilari su come si dovrebbe muovere un essere vivente, in accordo con quanto scrive Freud nel Perturbante, parlando del «dubbio che un essere apparentemente inanimato sia vivo davvero e, viceversa, il dubbio che un oggetto privo di vita non sia per caso animato» con riferimento ad automi e figure di cera.Quello della vecchia signora è un movimento non di questa terra, che, unito alla fissità dei lineamenti e della postura, fa di lei un’entità paradossale, in contrasto con le regole della logica e della razionalità. Se in genere al cinema l’effetto orrorifico di un essere che torna in vita innaturalmente (uno zombie, una mummia…) è dato dall’enfasi sul passaggio dall’immobilità al movimento, e quindi al suo adeguamento alla nostra realtà, al contrario Bava accentua la rigidità del fantasma, spingendosi fino al limite del ridicolo, ben conscio che l’orrore – come il riso – è dato da una repentina contraddizione alle nostre certezze e aspettative. Il manichino, insomma, resta tale, col suo rictus osceno e la rigidità cadaverica, eppure è in grado di scomparire e apparire a piacimento in un punto o nell’altro dell’appartamento di miss Chester, in atteggiamenti assurdi (come quando lo vediamo su una sedia a dondolo, con un gatto in grembo).Anche i momenti in cui la mano dello spettro appare alle spalle dell’infermiera per ghermirla non giocano più sull’elemento di minaccia dato dall’improvvisa apparizione in campo e del pericolo del contatto, ma sull’incongruità di quella mano cerea, elevata a elemento perturbante in sé, degno di una pellicola come Il mistero delle cinque dita (1946, Robert Florey), ed emblematica di un percorso di surrealizzazione della paura che troverà il suo picco in Shock, con le immagini della mano di ceramica che terrorizza Daria Nicolodi.Come farà nel film del 1977, Bava si concentra sul rapporto dell’individuo con l’ambiente circostante, sulla sua incapacità di dominare gli oggetti e sul pericolo di esserne addirittura soggiogato. Il lume che dal soffitto scende fin sul tavolo dove è posto il vestito della vecchia defunta, come se fosse dotato di vita propria, è un primo indizio della «rivolta degli oggetti» contro miss Chester che il regista svilupperà in Shock.Bava insiste sull’effetto logorante che il quotidiano, il triviale, hanno su tutti noi – una mosca che ci ronza attorno fastidiosa e che sembra irriderci, un rubinetto che perde, un rumore che turba la quiete notturna – interpretando l’orrore non solo come shock improvviso, ma anche come logorio psicologico.




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Le Edizioni Lindau presentano
LA RIEDIZIONE DI UN GRANDE CLASSICO

Come scrivere un cortometraggio

di Pat Cooper e Ken Dancyger

Edizioni Lindau | Collana «Saggi» | pp. 320 | euro 26,00 | ISBN 978-88-7180-960-1 | Seconda edizione

Il cortometraggio è una forma di espressione artistica autonoma, che ha tratti in comune con il racconto breve e la fotografia così come con gli altri tipi di film. Pur prestandosi alla sperimentazione, richiede una ferrea disciplina e un’approfondita conoscenza delle tradizionali problematiche del cinema. Come scrivere un cortometraggio vi condurrà dall’idea iniziale alla stesura finale della sceneggiatura, analizzando tutti gli elementi costitutivi del processo di scrittura. Il libro è ricco di molti esercizi, utilissimi per mettere subito alla prova le vostre capacità e, soprattutto, per imparare un efficace metodo di scrittura. 

GLI AUTORI Pat Cooper è professore di cinema e televisione alla Tisch School of Arts della New York University. In precedenza ha ricoperto la carica di executive story editor e direttore delle attività creative alla Paramount Pictures. È una sceneggiatrice professionista e ha scritto e diretto numerosi cortometraggi e il lungometraggio The Passage. È inoltre autrice del romanzo In Deep.
Ken Dancyger è preside dell’Undergraduate Film and Television Department della Tisch School of Arts della New York University. È autore anche di: Alternative Scriptwriting (insieme a Jeff Rush), Broadcast Writing e The Technique of Film and Video Editing. È stato sceneggiatore di vari programmi radiofonici, televisivi e di produzioni cinematografiche, ed è uno dei critici della rivista «Movie Pik».



 
 
 
 
 
 
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